Ritchie Blackmore
Una leggenda con malumore
di Vicente Mateu
Non c’è bisogno di essere –o essere stato- un capellone né c’è
bisogno di portare un bracciale borchiato al polso per includere Smoke
on the Water nella colonna sonora della vita di gran parte del genere
umano. Come quelle canzoni che inevitabilmente si ascoltano la notte dell’ultimo
dell’anno. È la sintonia del lato heavy che tutti nascondiamo dietro
la faccia politicamente corretta, la ribellione condensata nel riff di chitarra più conosciuto e
ripetuto di tutti i tempi. Curiosamente, il suo creatore è il paradigma
dell’essere anti-sociale, un genio antipatico, paranoico e capriccioso senza il
quale il rock non sarebbe la stessa cosa. Ritchie Blackmore è, senza ombra di dubbio, una delle leggende
della chitarra.
Nel 2015, con settant’anni, il mito lascia un po’ a
desiderare quando si entra nella sua pagina web, blackmoresnight.com, con quel
cielo stellato su cui si stagliano la sua figura e quella della sua amata Candice, chi lo convertì al folk-rock
e gli fece dire cose su di loro tipo “è come se Mike Oldfield avesse
conosciuto Enya”. ‘Premonitore’ è
ciò che di meglio si possa dire di quel commento che fecero nel 1997 in
occasione del lancio del loro primo lavoro insieme, con il quale il mitico eroe
del heavy
si trasformò in menestrello rinascimentale. E per far sì che non ci fosse
nessun dubbio sulle sue intenzioni, anche Ian
Anderson e il suo flauto furono invitati al felice evento.
Richard Hugh
Blackmore venne al mondo quasi alla fine della Seconda Guerra Mondiale, in
un Regno Unito tanto vittorioso quanto disfatto. Tempi di pace che 11 anni dopo
si tradussero in una chitarra acustica e qualche lezione di musica che suo
padre gli regalò. A 13 anni aveva già un gruppo e a 14 la sua prima elettrica: tutto
pronto per conquistare gli anni ’60. Gli piace dire di quell’epoca che il primo
pezzo che gli insegnarono a suonare era barocco,
un aneddoto della sua ossessione per dimostrare il fondo ‘classico’ della sua
formazione musicale. Decenni dopo si mise a imparare a suonare il violoncello.
Blackmore si è
comportato sempre come se dovesse dimostrare qualcosa, soprattutto il suo ego,
delle dimensioni di un dinosaurio, che solo Ian Paice e Jon Lord
sopportarono. Che lo dicano a Ian Gillan
o a Roger Glove, o a tutte le band
che ha cacciato dalla sera alla mattina durante la sua carriera in solitario.
Basterebbe l’andirivieni di personaggi durante la (doppia) epoca dei Rainbow per farlo psicoanalizzare.
Dopo gli inizi con The
Outlaws, la sua relazione con la chitarra bisognerebbe realmente dividerla
fra Deep Purple, Rainbow e Blackmore’s Night, con le due prime tappe intrecciate dalle andate
e dai ritorni del nostro volubile protagonista. In queste fasi ebbe la meglio
l’elettricità, con il rock duro come
insegna, heavy metal con pretese
tanto sue come da parte dei personaggi chiave della sua vita artistica, come lo
fu Jon Lord. Con lui era facile condividere la sua vena ‘classica’, circondarsi
di filarmoniche e lasciare tutti stupefatti. In più, sapeva anche comporre,
cosa che, come lui stesso confessò, sapeva fare francamente male.
Per quanto riguarda la chitarra, la fama di Blackmore si deve più al carattere
pionieristico, per essere uno dei primi a ricorrere allo shredder, che non alla sua tecnica con le sei corde, cosa che lo
posiziona nel mezzo della lista dei 100 migliori chitarristi di tutti i tempi,
secondo i lettori di una nota rivista. Un posto forse ingiusto perché anche se
il suo stile si afferra all’energia e alla velocità, sono in pochi quelli
‘puliti’ come lui nel bel mezzo della tormenta. Nei suoi assoli non si perde
mai una sola nota, una caratteristica che è ancora più evidente adesso che ha
sostituito la sua Stratocaster per
un laud.
La tappa porpora
fu una montagna russa nella quale le droghe svolsero un ruolo primordiale, come
accadde per quasi tutti i gruppi dell’epoca. L’era dei grandi inni e lo sfoggio
di virtuosismo –quando riuscivano a reggersi in piedi- andò in malora insieme
alle impossibili relazioni personali di tanti caratteri obbligati a convivere
durante tour lunghissimi a cavallo di
un successo folgorante che molti furono incapaci di assimilare. Il pantheon delle glorie del rock ne è la prova.
I Deep Purple
sopravvissero a singhiozzo. Iniziarono alla fine degli anni ’60 come una band
di rock progressivo che ammirava i King Crimson e che, sotto l’egida di Lord, s’impegnava in lunghe
improvvisazioni durante le quali lo stesso Blackmore
assicurava che ciò che gli piaceva di più era ‘fare bordello’. Ma fu solo un lapsus di due o tre anni, fino a che
gli si accese la luce di In Rock e iniziarono a nascere i
grandi temi che gli diedero posto nella Storia, Child In Time… Nel 1971
sarebbe arrivato Machine Head, uno dei dischi fondamentali del XXº secolo.
All’apice del successo, dopo aver registrato, fra gli altri,
Made
in Japan e certificare la globalizzazione del rock al margine di razze
e culture, accadde ciò che Jon Lord
definì come una delle più grandi ‘vergogne’ del rock dai suoi inizi: Ian
Gillian e Roger Glover andarono
via o, meglio, fuggirono, stanchi dell’egoismo di Blackmore. Sarebbero poi arrivati altri membri non meno brillanti –
David Coverdale, Glenn Hughes – ma non sarebbe stata più
la stessa cosa e lo stesso chitarrista li avrebbe abbandonati poco dopo, perché
diceva che non gli piaceva la deriva funk
che stava prendendo la band. I Deep
Purple non superarono la sua assenza e si videro costretti a prendersi una
vacanza di quasi 10 anni fino a che, nel 1984, lo convinsero –meglio non sapere
come né per quanto (250.000 dollari, dicono)- a tornare all’ovile.
Nel 1975, il figliol prodigo decise di essere capo di se
stesso e montò il suo gruppo, un regno che al principio condivise con il
compianto Ronnie James Dio, fino a
che decapitò anche lui, quando si stufò dei suoi testi gotici e del fatto che
gli rubava protagonismo. A quell’epoca le super-band
governavano la terra dei grandi stadi e il duo riuscì a portare i Rainbow ai primi posti delle
classifiche, specialmente in Europa. Da lì passarono giganti come il batterista
Cozy Powell o il tastierista Don Ayrey e persino Roger Glover! Tutta una fila di
musicisti con i quali Blackmore
raggiunse momenti gloriosi come Difficult to Cure, considerato il
miglior disco del gruppo oltre che il punto di inflessione e la decadenza nell’Adult
Oriented Rock, il temuto AOR
che sotterrava il rock duro.
Non è facile mantenere uno stile quando nel bel mezzo del
cammino il leader fa l’ennesima
fesseria, questa volta quando tornò alla casa madre dei Deep Purple. La ri-unione del gruppo, gridata ai quattro venti, si
plasmò in un nuovo disco di platino, Perfect Strangers, un titolo che
descriveva perfettamente l’ambiente che si respirava nella band. Dopo soli 4
anni, Blackmore riusciva ancora una
volta a mandar via Ian Gillian e
cominciò l’agonia. Dopo poco si forzò il ritorno del cantante e la cosa finì
com’era da aspettarsi: cercando un nuovo chitarrista. Visto che non tutti i mali
vengono per nuocere, prima fu niente meno che Joe Satriani chi si occupò dal primo accordo che la sua assenza
passasse inavvertita e poi fu cosa di un altro mostro come Steve Morse. Loro, almeno, non rinnegavano Smoke on the Water.
Nel 1997 Rainbow
risorgeva con nuovi e vecchi membri per un corto periodo di appena tre anni,
sufficiente per rivivere alcuni successi e per far capire a Blackmore che la musica rinascimentale
e medievale erano il suo destino. Fu così che, mano nella mano con la sua
fidanzata Candice Night, una specie
di elfa, ripose la chitarra elettrica e spense l’amplificatore.
Dopo aver ricordato questa parte della sua discografia, la
conclusione è che a Blackmore, in realtà, sarebbe piaciuto essere il
chitarrista dei Jethro Tull, e non
si deve solo alla presenza di Ian
Anderson nel primo disco con Night.
Da questo momento bisogna cambiare registro, dimenticarsi di Highway
Star e rilassarsi con una musica che cerca solo la bellezza, ricreando
melodie semplici e leggere alle quali mancano solo i passerotti a fare i cori.
Un Folk un po’ sempliciotto con una
meravigliosa chitarra acustica e una voce femminile accettabile ma nulla di più
e che non sempre è capace di stare allo stesso livello.
I suoi fan rockettari
lo capiscono, ma non lo perdonano. Probabilmente per Blackmore il danaro ha
importato sempre così poco che non ci pensò su due volte per iniziare
un’avventura che, prima o poi, sapeva che gli avrebbe fatto perdere il suo
pubblico di sempre. Comunque, sembra ne abbia uno nuovo. E non è una cosa
strana, dato il tipo. In tutti i modi, durante la sua carriera ha fatto sempre
ciò che ha voluto senza pensare alle conseguenze. In cambio, ed è una cosa
vera, ci ha regalato una buona manciata di canzoni indimenticabili che, gli
piaccia o no, continueranno a suonare molto più a lungo di quelle di adesso.