Keith Richards, il gatto del demonio

di Alberto D. Prieto

Chi non ha sentito mai parlare di lui, non vorrebbe trovarselo dietro un angolo buio di Edith Grove.
Immagina una notte umida e solitaria, accompagnato solo dai tuoi passi fino a che senti una presenza vicina, anticipata da un’aria permeata di effluvi rancidi, quelli che espellono i corpi sazi d’alcol distillato. In questo caso, solo una cosa potrà salvarti dallo spavento: la fortuna di trovarti davanti a qualcuno che condivide il tuo stesso destino e che si riconosca riflesso nel tuo teschio. Manca l’aria. L’aria si può masticare. Il cuore accelera. Occhi truccati, una bandana disastrata in testa, un sorriso diabolico.
Una, due…Una, due, tre, quattro…  

E così fino a nove. Il malaugurio che porta il felino se te lo incroci in una strada scura, lo compensa il gatto nero se e quando è dei tuoi, se lo tieni in casa come simbolo di buona sorte -almeno per alcune culture-. Persino Dio mandò una coppia extra di gatti a Noè per sterminare la plaga di roditori che si riproducevano sull’arca come matti… La loro efficienza nei lavori oscuri degenerò anche nell’essere considerato l’alter ego delle streghe, secondo la medievale persecuzione cattolica. Il gatto s’identifica con il demonio, con la magia nera…ma nell’antico Egitto era anche l’immagine di certe divinità longeve. Per il suo carattere autosufficiente e indipendente, per ciò che ha di enigmatico e magico, in alcuni paesi si dice che abbia sette vite. O nove.  

Nascere, crescere, riprodursi e morire…o no. Quando il diavolo ti ricambia la simpatia e sigilla un’amicizia, questa può essere eterna…forse mezzo secolo? Di più? La generazione dei figli del secondo dopoguerra mondiale, la più prolifera di musica popolare moderna, quella che ha creato i nostri miti dalla solitudine e dal dolore di famiglie spezzate e zeppe di veterani squilibrati, che disegnavano di nascosto i riflessi dei propri intimi silenzi, menando chitarre e rancori di una maturità auto-inflitta. Quella truppa di bambini si è forgiata da autodidatta nel campo delle arti che esorcizzavano le proprie paure: ginocchia scarne, bucce di patata, cavolo bollito, freddo e notti a provare accordi fra sigarette rubate e fumate di nascosto.
Nonni silenziosi che camminano sovrappensiero, che mettono alla prova, che approvano ragazzate, che incoraggiano, che vogliono nipoti forti, perché loro sono sopravvissuti per fortuna (o no) alla prima grande guerra, ma i loro figli non sono tornati dalla seconda (o lo hanno fatto a metà), e senza riuscire a zittire un poco l’anima non vedono l’uscita da questa morte di vita.
Madri lavoratrici di figli unici, solitari, cresciuti in strada, schivando auto e gang rivali e polizia e lividi e botte e spintoni, e ladri di merendine, i bambini del secondo dopoguerra sono cresciuti circondati da mamme e zie zitelle, pronte a menare con un palo sulle mani o sul culo quando non si facevano bene i compiti, bambini che hanno imparato a cantare l'inno alla regina, nel coro della chiesa, che sono cresciuti adolescenti e hanno deciso di creare il loro mondo con tutto ciò che avevano raccattato da terra fra ratti, detriti e bombe inesplose, di strada verso la scuola o verso il proprio gruppi di amici, che poi si riproducevano in bande dal suono pessimo e peggiore reputazione, ma che poi germogliarono in quelli che sono i nostri miti di adesso e che non moriranno mai, neanche se cadono dalla cima di una palma da cocco, a quanto pare, perché se la vita ha avuto inizio da quell’inferno, da chi saranno corrisposti in simpatia se non dal diavolo e da lui premiati con la vita eterna?  

Come i successi degli Stones. Come il suono inconfondibile di Keith, così irreale come il mondo dov’è cresciuto. Chi può credere che quel vecchio incurvato dal peso delle innumerevoli rughe, dai movimenti lenti per il peso degli anni, delle droghe, dell’alcol, delle donne…chi potrebbe mai dire che quel relitto umano strampalato, proprio lui, riesca a far suonare una Gibson come un coro alterato di geni del blues? Richards sfida e sopravvive alla logica fabbricando l’atmosfera che respirano Jagger, Watts e Wood. E, che Iddio non ci senta, tutti vorremmo sniffare un giorno le sue ceneri, nel caso in cui si riesca ad ereditare qualche alchimia oscura per consumo. Intanto ci proviamo per simpatia, inchinandoci tutti, nonni, padri, figli e nipoti, fino a che sia possibile presentarci al suo cospetto e lui, colmo di ricchezze e di buon gusto musicale, ci mostri i segreti del suo gioco. O ci mandi a quel paese.
 

Era l’anno 1959 quando un giovane con mandibola pronunciata, terminava la scuola d’arte di Sidcup. La sua abilità di esprimersi attraverso il virtuosismo del disegno e qualche contenitore bruciato per coprire le tracce di piccoli furti, l’aveva portato fin lì. Un amico del quartiere di Dartford andava alla stessa scuola e, di tanto in tanto, suonava qualche strumento in una banda dal nome ridicolo, anche se normale per quell’epoca di fine anni ’50: Little Boy Blue and The Blue Boys. Anche un certo Mick Jagger bazzicava da quelle parti, ma non sarebbe stato fino a un anno e mezzo dopo che Keith e Mick si sarebbero incrociati su un treno per ricordare l’infanzia passata insieme alle elementari. Prima che la vita li separasse e tornasse a metterli insieme con i dischi di Chuck Berry e Muddy Waters che, sotto il braccio del bambino per bene dalle labbra aggressive e sguardo lascivo, servirono da scusa all’artista dall’incazzatura facile, per invitarlo a far merenda insieme quello stesso pomeriggio. Era la primavera del 1961 quando tutto ebbe inizio…
 

Keith Richards
non ha mai permesso che la vita lo cucinasse a fuoco lento. Andò via di casa a 19 anni e preferì Edith Grove, un quartiere molto dopo Chelsea, una casa sporca e fredda, con compagni di casa sudati per il tanto suonare, al calore della casa familiare, dove si vedeva soggiogato.
Da casa sua, in mancanza di soldi, portò via una buona eredità. Discendente di ugonotti francesi che scapparono in Inghilterra nel secolo XVIII, il nonno Theodor August Dupree suonava diversi strumenti come anche le sue sette figlie, fra cui mamma Doris. Il piccolo Keith aveva imparato a cantare quando aveva due anni e compiuti i quattro già correggeva sua madre quando stonava…
È abitudine adolescenziale quella di provare diverse cose, di lasciarsi trasportare da qualcosa o qualcuno o, arrivato il momento, di ergersi leader di un gruppetto dagli interessi comuni. Questo non è mai stato il caso di Keith Richards. Ancora adolescente in un certo senso, ai suoi settant’anni respira solo Rolling Stones, il senso delle sue longeve, molteplici e improbabili sopravvivenze. Il chitarrista dagl’occhi truccati, al quarto posto nella classifica dei migliori della storia a sei corde, secondo la rivista che proprio da loro prende il nome, è rimasto crudo, pelle e ossa, buttando via l’olio di chi ha provato a cucinarlo, a domarlo, a prendergli le misure. L’unica cosa che si è potuta fare con Keith è stata accompagnarlo nel suo percorso; come fece Gram Parsons, quell’amico americano che apparve alla fine degli anni 60 con i suoi Byrds per rivelargli i segreti del folk bianco e le armonie meridionali di corde e fiati, capire i suoi riff sincopati, illuminargli il cammino verso lo sviluppo dei suoi personalissimi accordi in sol aperto e fargli capire che lui, e solo lui, è chi deve comporre la melodia della sua vita. E della tua, se vuoi tenerlo vicino.  

Prima, il 9 maggio del 65, dopo essersi fatto saltare un paio di brufoli davanti allo specchio di un albergo di Tampa (Florida, USA), Keith aveva mostrato a Mick l’embrione di qualcosa. Nessuno dei due, né in quel momento, né dopo aver terminato di partorirlo quattro giorni dopo nel Chess Studios di Chicago, avevano una gran fede nel pezzo. Ma Brian Jones, con ancora un briciolo di lucidità, Charlie Watts, sempre ponderato, Bill Wyman, l’eterno Ian Stewart e l’ancora manager Andrew Oldham, votarono a favore.
A ‘Satisfaction’ non mancava nulla e bisognava darle ali per volare alto.
In effetti, quel titolo, si convertì in un inno non appena uscì come single un paio di mesi dopo: l’eterno riff, secondo Richards, si basava su qualcosa che lo ispirò dal ‘Dancing in the Street’ di Martha & The Vandellas, una canzone che anni dopo servì da motivo a Mick per voltare le spalle a una delle molteplici resurrezioni di Keith, usando come scusa uno di quei progetti che al suo alter ego servivano solo a gonfiare, appunto, il proprio ego, in quest’occasione sommandosi alla gloria di Bowie. Il suono buttato in faccia a volto scoperto, il testo ribelle e generazionale, di incompresi ereditieri di un mondo alieno, di giovani che vogliono impossessarsi del loro mondo, del mondo… E il nome. Sarà o no una coincidenza, una casualità, ma la canzone, cantata in negativo, ha un titolo che è espresso in positivo, il messaggio di un fastidio, di una noia, di una insofferenza, contiene una speranza. Se nella vita non trovi soddisfazione, vieni con noi e sii uno Stone, cantalo con noi. Facciamo di questo inferno, il nostro inferno, per lo meno.
Forse è questo il segreto di nascere, crescere, inciampare e non morire. Essere un vecchio rimanendo giovane, governando il tuo destino, salvandoti sempre all’ultimo minuto, altezzoso anche quando cadi da una palma, sorriso eterno, chitarra in spalla.

Solo in questo modo puoi superare il fatto che il Marquee di Oxford Street veti il tuo gruppo proprio quando hai il bisogno di presentarti nel club più importante della Londra del ’62 e che il suo proprietario ti denunci per avergli violentato il locale e hai una voglia matta di fargli ingoiare la tua Harmony Meteor.
È l’unica maniera di sopportare una rivalità imposta dai fans, dai manager e dalla stampa con i quattro favolosi ragazzi di Liverpool con i quali, fra l’altro, vai a disfarti di birra dopo i concerti e a commentare i segreti della Epiphone Casino.

Solo prendendotela con la Les Paul non soccombi al fatto che la tua donna, Anita Pallenberg, si metta nel letto del tuo migliore amico e tutti quanti vedano sul grande schermo le scene che sembravano tanto realistiche perché profusamente provate.
Solo in questo modo resti in piedi dopo quantità di vodka, bourbon e altri liquori che farebbero stramazzare al suolo i milioni di persone che gridavano il tuo nome in Hyde Park nel ’69, mentre cavalcavi una Flyin’ V.
Solo un carattere così ti fa sopravvivere alla morte di tua figlia di un mese d’età, Tara, mentre sei in pieno tour negli Stati Uniti e continui sulla strada mentre un Sol si dipinge su cinque corde nere.
Solo così un furto di 11 gioielli da collezione fra cui Gibson, Ampers, Telecaster o Guild Bluesbird, dal valore che supera i 40.000 dollari dell’anno ’71, non ti spettina neanche.
Senza la Strato o la SG, non avresti potuto sopportare l’assenza di papà Bert per quasi vent’anni e non avresti potuto adottarlo come compagno di baldoria dopo il rincontro nel 1982 (in un bar, ovviamente)…  

Questa è l’attitudine che fa in modo che dopo decine di scazzottate, casini, arresti e giudizi, possessione illegale di armi, scandalo pubblico, aggressioni all’autorità e traffico di narcotici, tu sia d’ispirazione per i migliori liutai, come Ted Newman Jones per esempio, e le accuse, che tutti confermerebbero, non vadano oltre e non ti facciano marcire in carcere come succederebbe con il resto dei comuni mortali.
Un carattere così è ciò che ti permette di tirarti fuori dal pozzo scuro, riconoscendo, con passeggera lucidità nel giugno del ’93, i meriti di Ronnie Wood, che seppe prendere in mano le redini quando ne hai avuto bisogno, e fu solista della tua Firebird quando tu a stento potevi tenere il ritmo con la Black Beauty e ti diede spazio e tempo per ritornare dagli abissi dove sprofondasti quando ascoltavi come l’altra metà del Richards/Jagger cancellava il tuo cognome dai suoi progetti e ti voltava le spalle, desiderando a voce alta che tornassi a cavallo. E quando hai già speso più opportunità di quante lo stesso diavolo possa offrirti, e guardi fuori per dare l’ultimo passo, quel carattere lì ti fa mandare a quel paese Dio e tutti gli imbroglioni, e poi versi un bicchiere a Mick e dici: “Ma che cazzo!”…e lui ti capisce, e tornano le risate insieme.  

Questa è l’essenza degli Stones, l’unico gruppo dove lo stesso batterista ammette che non è lui, Charlie Watts, che da il ritmo, ma che in realtà tutti seguono Keith Richards, un tipo che ha corde al posto delle vene, un aspetto bizzarro, che riunisce le condizioni di chi inaugura un nuovo percorso, condizioni che nel fondo sono solo una: quella di non voler marcare il tempo che non sia il suo. Andrò dove voglio andare, andrò con chi vorrò e mi fermerò solo dove trovi il piacere di dare e ricevere. Le donne che lo strinsero fra le braccia potettero farlo solo perché si limitarono ad accompagnarlo per quel sentiero. E fu così che fra i suoi successi da rocker troviamo le più tenere ballate d’amore e le sfide più esplicite a quel rancido ordine che lo vide nascere.

In 50 anni sotto i riflettori e sulle tavole di legno dei palchi, i pedali e le corde di Keith Richards hanno mostrato qualcosa di magico, alternando –come solo dio lo sa- ritmica e solista o mischiandosi insieme in ambienti impossibili; qualcosa di enigmatico, creando riff ispirati dal respiro dei fans al vederlo; e qualcosa di indipendente e autosufficiente, che sapeva quando prendere le redini e quando togliersi di torno per esorcizzare le proprie miserie.
L’anima immortale degli Stones ha avuto la sorte di nascere in Inghilterra, dove i gatti del demonio hanno nove vite. E dove anche i richiamati dai suoi incantesimi, spiriti materiali cui la sua magia ha riempito di ricchezze in cambio di simpatia per il suo buon gusto, si sono arresi ai suoi sortilegi.
Una, due…una, due, tre, quattro.  

Solo dio sa se siamo già arrivati alla nona.    

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