Eric Clapton
Clapton, un dio in fuga
Di Alberto D. Prieto
A quell’epoca, Clapton era già un dio. Ma lo era solo per un
gruppo sgangherato di pazzi e per qualche grupie. La sua missione in Terra, al
meno in quelle terre governate da sua graziosa Maestà, era l’espansione del più
puro dei blues. Questo l’aveva portato a una presunzione crescente, alla
necessità di girare tutte le sale di concerti possibili, da un gruppo
all’altro, predicando la Parola del blues e seminando la discordia della sua
fuga. Eric Clapton sentì sempre che il proprio cammino era dritto e che doveva
lasciarsi alle spalle quegli incontri spontanei.
A quell’epoca aveva già lasciato negli Yardbirds
quell’impronta che Jeff Beck e Jimmy Page avrebbero fatto poi fiorire e una
bibbia del blues rock nell’album di Beano alla quale John Mayall potesse sempre
ricorrere e utilizzare come rifugio quando, decade dopo decade, avesse avuto
bisogno di rimettere in riga la sua cambiante formazione.
Diciamo che per quell’epoca Clapton era già un dio.
Esattamente come recitava un graffito sui muri che fungevano da latrine per gli
ubriaconi della stazione metropolitana di Islington, o come egli stesso si
ripeteva ogni sera. Passeggiava per le strade deserte di Londra dopo l’ultimo
spettacolo –suo o di altri- e l’ultimo bicchiere al Marqee, ripassava le sue
insicurezze e vanità nella bruma di una fredda alba sul Tamigi. Senza una casa
dove morire di stanchezza, debole nell’autostima, presuntuoso nel suo rifugio
musicale, dal quale rimproverava al mondo tutte le sue incongruenze con il suo
virtuosismo ossessivo.
Questo era l’Eric Clapton, quasi sempre ubriaco, che debuttò
alla grande con i Cream nel Festival del Jazz e Blues di Windsor davanti a
15.000 spettatori in una patriottica notte da leoni, il giorno dopo che
l’Inghilterra alzasse la Coppa Jules Rimet, nella finale del mondiale celebrata
a Wembley –quella del no-gol alla Germania, quella della vendetta generazionale per un dopoguerra di privazioni, quella de ‘il calcio l’ho inventato io e
fottiti’-.
Era l’estate del 1966 e Clapton, Baker e Bruce chiudevano
insospettatamente una serata che includeva anche gli Who e riuscirono, sotto un
diluvio universale e con solo tre canzoni, varie ripetizioni e qualche
improvvisazione, a far coincidere pubblico e critica: se Clapton era dio, i
Cream erano la santissima trinità.
Sette anni prima, la notizia della morte di Buddy Holly
stordì Eric Clapton, quattordicenne e incazzato. L’aveva visto pochi giorni
prima al ‘Sunday Night at the London Palladium’ lievitare nello schermo a
cavallo di una Fender fiammane e, vagando per il cortile della sua scuola di
Ripley con lo sguardo perso nel vuoto, da allora iniziò ad amare la musica, il
luogo dove potersi nascondere fra i suoi tremolii interiori –una madre assente,
un padre sconosciuto, poca abilità nel socializzare e il suo nullo interesse
per dare calci a un pallone fra i buchi lasciati dalle bombe tedesche nelle
radure circostanti.
“Quella Fender era il futuro ed io volevo scappare dal mio
passato, è così”, convinse Rose e Jack, i suoi nonni, a regalargli la prima chitarra,
una acustica Hoyer di bassa qualità. La spremette come un limone suonandoci una
volta dopo l’altra tutti i single che riuscì a permettersi. Chiuso nella
sua stanza, lasciandoci le dita su quelle corde troppo dure e troppo lontane dal
manico mal montato, Eric imparò a sentire tramite gli accordi…tanto non aveva
nessuno con cui parlare.
Figlio di un militare statunitense destinato in Inghilterra
durante la II Guerra Mondiale, era cresciuto pensando che l’adolescente,
abbandonata e, soprattutto, assente madre, fosse sua sorella maggiore e che
quelli che in realtà erano i suoi nonni, fossero i suoi genitori. Non è
difficile immaginare l’impatto che ebbe scoprire la verità a soli nove anni, le
conseguenze e il comportamento del giovane Clapton.
Dal lavoro con la Hoyer nacque l’abitudine si suonare con
forza. E da lì che gli fu affibbiato il soprannome di ‘slow hand’, mano lenta,
per la sua parsimonia nel cambiare le corde rotte della sua Gibson ES-335 del ’64 color ciliegia, fra canzone e canzone: che aspettino, se vogliono ascoltare
buon blues. Con il passare del tempo, non ha senso pensare che Clapton si negasse a uscire sulla
foto di copertina e abbandonasse gli Yardbirds per le velleità pop della
canzone che li portò in cima alle classifiche: ‘For Your Love’. Fa sorridere perché
la lunga carriera di uno che è sempre stato considerato fra i migliori
chitarristi della storia, è piena di concessioni alle impurità delle mode.
Ma Eric Clapton (Ripley, Surrey, Inghilterra, 1945) era
giovane ed orgoglioso, sapeva di essere un virtuoso e non aveva nulla da
perdere quando mandò a cagare Chris Dreja e gli altri e prese il proprio
cammino. Iniziava a mostrare alla vita la sua faccia più ingrata.
I primi anni della carriera musicale di Clapton furono
quelli di una autentica puttana del blues. A mano a mano che perfezionava le
sue abilità con le corde, consegnava -per tempo determinato- il suo finto amore
eterno alle sorti di una o un’altra formazione di grandi musicisti, tradendo l’anteriore
senza alcuno scrupolo. Così lasciò i Cream, buttò nella spazzatura l’avventura
con Winwood egli altri Blind Faith e cosa dire poi del suo rapido disincanto
con i Domino dopo il disco ‘Layla’.
Il suo suono, chiamato ‘woman tone’, nasceva da una Gibson
ciliegia e un amplificatore valvolare Marshall. Di quelle valvole che diedero
il nome al tono –quelle che gli cavalcavano in groppa sempre per una sola
notte- Clapton ne fa un’interpretazione distorta, esagerando l’intensità del
volume e dei toni dell’amplificatore al massimo e il tono della chitarra al
minimo: quasi un compromesso personale, lui al minimo e la banda, o la femmina,
spremuta fino al midollo.
Allora arrivò il tempo dell’eroina disperata per l’unica
trasgressione più forte della sua volontà: il ripetitivo ‘no’ di Pattie Boyd a
abbandonare George Harrison, amico affettuoso e fedele, nonostante tutto.
In quegl’anni di denaro facile e capricci, appena prima di
lasciare i Domino, entrò in un negozio di Nashville (Tennessee) e comprò sei
Fender Stratocaster. Usò il meglio di tre delle sei per creare ‘Blackie’,
quella che fu poi la preferita per i concerti dal vivo. Ma prima di sapere cosa
farne delle altre, avrebbe dovuto aspettare un po’, lievitando fra coca, acidi
e chissà cos’altro.
Il blues iniziò a scomparire per far posto al reagge e ai
sintetizzatori degli anni ’80, arrivò la morte di qualche amico, ci fu qualche
amante e Eric cambiò la siringa per la bottiglia grazie all’insistenza di un
altro amico, Pete Townshend, che mantenne in piedi la sua carriera con
spettacoli ‘ad hoc’ e un’anima fatta di consigli su misura.
Pattie finalmente si era trasferita a Hurtwood nel 1974, una
proprietà che ‘slow hand’ aveva comprato anni prima, vicino alla sua casa
natale. E quando in teoria tutto combaciava alla perfezione, l’amore, il
successo, la sua vita privata, il riconoscimento universale e una certa
maturità, almeno teorica, è quando fu chiaro che la fuga era appena
iniziata.
Musicalmente i dischi di Clapton includevano una sola ‘perla’ per ogni lavoro. Il resto era un rifritto ben impacchettato. La sua vita
personale era il riflesso e la causa dell’enorme errore di contare più
bottiglie di liquore che giorni in calendario.
Iniziò diverse relazioni amorose mentre si sposava, tradiva,
ritornava e si divorziava da Pattie. Dal ’79 all’89 ebbe il tempo di comporre
bellezze come ‘Wonderful tonight’ e di confessare un paio di figli illegittimi.
Paradossalmente la tragica morte agli inizi degli anni ’90
del secondo figlio insegnò a Eric Patrick Clapton a vivere, 56 anni dopo esser
nato bastardo e vergognoso in un paesino inglese e tuttavia moralmente
vittoriano. La caduta da un cielo di 50
piani del piccolo Conor frenò bruscamente la fuga di un padre divinizzato, che
smise anche di fumare e giurò sobrietà per il resto dei suoi giorni. Qualche
mese di distacco passato a comporre in solitudine lo raddrizzò moralmente e gli
mostrò il cammino. Con l’interpretazione pubblica di ‘Tears in Haven’ durante
il concerto ‘Unplugged’ di MTV, si liberò dai demoni che lo possedevano e
abbandonò il ruolo di dio.
Il ritorno alle classifiche e il posteriore incontro
fortuito con Melia, l’attuale sposa e madre di tre figlie in comune,
convertirono il dio tormentato della chitarra in un generoso filantropo,
proprietario di una clinica di disintossicazione alcolica ad Antigua, nei
caraibi vicino la sua mansione, e in un organizzatore di innumerevoli festival
benefici e di concerti di addio agli amici che poco a poco iniziano ad arrivare
alla fine del loro cammino.
Uno di questi fu quell’ex-Beatle, di cui fece piangere la
chitarra in seguito a un ‘rapimento’ alcolico, al quale confessò che ‘Leyla’
era per Pattie, sua sposa, e che pensava di portargli via anche lei, prima o
poi. George Harrison, insieme a Steve Winwood e Pete Townshend, seppero sempre
camminare in una via parallela a quella di Clapton, incrociandosi con il suo cammino divino
quando e come solo gli amici sanno fare: per esorcizzarlo con qualche ‘jam’ o, direttamente, a
schiaffoni. A loro andarono quelle tre Stratocaster acquistate in saldo, le
sorelle di ‘Blackie’, che invece venne venduta per quasi un milione di dollari
all’asta per la raccolta fondi per il centro di riabilitazione chiamato
Crossroads, ovviamente.